Public speaking e ipersensibilità al giudizio
Sono tante le persone che provano un forte stato d’ansia e agitazione prima e durante una performance in cui viene richiesto loro di parlare in pubblico (per pubblico si può intendere anche un gruppetto di amici). Solitamente la paura sottostante a questo stato di agitazione è quella relativa ad un giudizio negativo proveniente da chi ci ascolta e ci osserva. Temiamo di fare la fatidica “brutta figura”, di risultare incapaci, goffi, incompetenti, non all’altezza, impacciati ecc. Ognuno può avere paure estremamente diverse dagli altri ma solitamente le sensazioni corporee che sperimentiamo sono più o meno le stesse: aumento del battito cardiaco, sensazione di calore e arrossamento del viso, aumento della sudorazione, tremore alle estremità degli arti, secchezza delle fauci, abbassamento della facoltà cognitiva di controllo e monitoraggio dell’attenzione che, in uno stato di iper-attivazione, si rivela alla spasmodica ricerca di segnali di pericolo provenienti dal mondo esterno.
Solitamente tuttavia il pericolo non viene effettivamente dall’esterno ma è piuttosto frutto di pensieri e credenze interne.
Non soltanto precedenti e precoci esperienze in cui ci siamo sentiti in imbarazzo e ci siamo vergognati di fronte ad un pubblico possono rappresentare un “trauma” archiviato nella nostra memoria inconscia, ma anche le credenze che noi stessi ci siamo creati in merito alle nostre capacità (il nostro valore) determineranno oggi questa nostra fobia di parlare in pubblico.
Se hai radicata in te l’idea di non essere all’altezza della situazione e di non poter reggere alcun tipo di confronto con gli altri, allora cercherai in tutti i modi di esporti il meno possibile, cercherai di non trovarti in contesti dove dovrai “metterci la faccia” poiché sei (più o meno consapevolmente) certo che farai una brutta figura e quando la vita, a volte beffarda, ti costringe a trovarti in tali situazioni lo stato emotivo sopra descritto sarà probabilmente accompagnato anche da un’emozione di rabbia per l’ingiustizia percepita e da un’implacabile voglia di scappare via o di nasconderti che non può trovare soddisfacimento per varie ragioni tra cui una sensazione di blocco/congelamento (freezing).
Se invece hai radicata in te l’idea di essere più che all’altezza di ogni situazione e di poter reggere qualsiasi tipo di confronto con gli altri che consideri come dei rivali in competizione con te, allora cercherai di dare il massimo per dimostrare la tua superiorità e ti imporrai degli standard di performance molto elevati con l’inevitabile e annesso rischio di percepire un fallimento al termine della tua prestazione. Questo determina oltre allo stato emotivo sopra descritto, anche un’ulteriore componente eccitatoria tipica di chi si appresta a combattere (iper-attivazione del Sistema Simpatico a discapito del Parasimpatico).
Sia quando ci si appresta a combattere, sia quando ci si appresta a scappare è il Sistema Simpatico a farla da padrone, i muscoli (compreso il cuore) vengono irrorati da grandi quantità di sangue e le funzioni non strettamente necessarie all’immediata sopravvivenza vengono temporaneamente inibite, il corpo è pronto e scattante, le facoltà cognitive più fini ed evolute lo sono invece un po’ meno. Questo, dunque, rende bene l’idea di come un sistema tarato in siffatto modo sia valido per far fronte ad un pericolo esterno, concreto, materiale, ma sia molto meno valido per fronteggiare un’attività che richiede una performance meramente intellettiva.
Per svolgere un’ottima performance intellettiva il livello di arousal (attivazione fisiologica) deve assestarsi ad un punto intermedio di un continuum che va dal sonno all’iper-eccitamento. Se noi siamo iper-attivati, quindi, non riusciremo a sfruttare al meglio le funzionalità della neocorteccia ma ci focalizzeremo sui presunti segnali di pericolo.
A proposito di tali segnali, si è già scritto di quanto essi siano soggettivi ovvero siano frutto delle nostre aspettative e credenze, eppure, a noi sembrano indiscutibili. Pensiamo di avere la ragionevole certezza che i segnali che abbiamo colto sul volto dei nostri interlocutori siano delle vere e proprie prove dei loro pensieri e che tali pensieri consistano in giudizi negativi. Allora come uscirne?
Se ti chiedessero di non pensare alle cose negative che temi possano accadere non riusciresti a soddisfare la richiesta perché è pressoché impossibile importi di non pensare a qualcosa. È molto più fattibile però l’ipotesi di pensare ad una cosa opposta a quella che ti viene spontaneamente in mente.
Se ti dicessi: “non pensare ad un cavallo nero”, tu probabilmente faresti molta fatica a non farlo. Per negare qualcosa, essa prima deve esistere, altrimenti il processo di negazione non potrebbe avere luogo. Dunque solo una volta che hai accettato l’impossibilità di non immaginarti il cavallo nero, potrai passare ad uno step successivo ossia quello di “immaginare un cavallo bianco”. Se ti sforzi ad immaginare un cavallo bianco non dovresti incontrare molta difficoltà a farlo. E bene, mentre stai pensando ad un cavallo bianco difficilmente penserai anche ad un cavallo nero. Bada bene, non dico assolutamente che sia impossibile continuare ad immaginare anche il cavallo nero mentre si immagina quello bianco, infatti, potrebbe capitarti (soprattutto nella fase iniziale del lavoro) di riuscire perfettamente a contemplare l’ipotesi che gli altri possano riservare per te dei pensieri positivi, elogianti e di apprezzamento ma, nonostante questa nuova ipotesi, la tua mente sembra andare automaticamente su quella vecchia ipotesi che causa sofferenza e rancore (gli altri sono degli spietati critici pronti ad umiliarci e a disprezzarci). Non ti preoccupare, sarebbe del tutto normale, i pensieri vanno e vengono e sono incontrollabili. Accogli il pensiero negativo senza giudicarti, non caricarlo di valore, osservalo e lascia che vada via spontaneamente (più diamo valore ad un pensiero più spesso esso tenderà a ripresentarsi, viceversa, se andrà via automaticamente esso perderà gradualmente la sua forza e piano piano si estinguerà). Quindi non sfiduciarti se le due ipotesi continuano a coesistere perché adesso sei in grado di chiamarle, appunto, “ipotesi” e questo è già un favoloso risultato. Mentre prima eri convinto dell’oggettività dei tuoi pensieri (il cavallo è oggettivamente nero) ora sei in grado di comprendere che quello era solo un costrutto mentale, solo uno dei tanti possibili modi di vedere il mondo (il cavallo, se ci sforziamo, può essere anche bianco). Nel momento in cui ti renderai spontaneamente conto, infine, che immaginare il cavallo di colore bianco ti fa stare molto meglio rispetto a quando lo immagini nero, allora sarai per natura (ma questo richiede anche impegno ed allenamento) portato a scegliere di vederlo bianco.
Se indirizzi tutta la tua attenzione sui segnali sociali che ti indicano che gli altri ti apprezzano e che ti considerano valido, competente, utile ecc, e lo fai con costanza e perseveranza, presto questa attività si trasformerà in abitudine così come si era trasformata in abitudine l’esperienza opposta. A questo punto potrai già assistere ad un significativo abbassamento delle emozioni negative associate all’esposizione in pubblico. Citando Einstein: “tutto è energia e questo è tutto quello che esiste. Sintonizzati alla frequenza della realtà che desideri e non potrai fare a meno di ottenere quella realtà. Non c’è altra via. Questa non è Filosofia, questa è Fisica”.
Dopo questa tentativo che potremmo definire di “auto-suggestione” che serve soltanto a limitare lo stato affettivo negativo associato all’esposizione in pubblico (a tamponare il sintomo), bisogna necessariamente iniziare il vero lavoro.
La fase successiva prevede un processo che conduce al riconoscimento, alla comprensione ed alla accettazione del nostro caratteristico bisogno di servirci del giudizio degli altri per ricavare informazioni su noi stessi. Perché siamo così dipendenti dal giudizio altrui (bello o brutto che sia) e non siamo invece centrati su noi stessi? Come mai altre persone sembrano essere più sicure di loro stesse e non sono così interessate al giudizio altrui?
L’ultima fase del percorso che potrebbe portare non solo ad una estinzione dei sintomi, ma soprattutto ad un mantenimento duraturo del benessere che ne deriva, fa riferimento alla storia e alle origini di queste nostre caratteristiche che ci causavano malessere. Quegli aspetti della nostra identità derivano da un trauma acuto specifico? Oppure, come quasi sempre accade, essi si sono costruiti sulla base delle dinamiche relazionali con le nostre figure di attaccamento primarie ? Queste sono le domande che è utile porsi e a cui è importante dedicarsi con determinazione e costanza per trovare una plausibile risposta che ci consenta, ancora una volta e sempre di più, di prendere le distanze dalle nostre convinzioni non più funzionali, analizzandole per quelle che sono, ossia come frutto casuale della concatenazione di innumerevoli variabili ambientali e sociali e non come un dato di fatto, un marchio indelebile che ha determinato e determinerà la nostra storia identitaria.
Questo articolo lungi dall’essere una guida fai da te per risolvere un problema così complesso come l’ipersensibilità al giudizio, vuole essere solo un modo leggero e scanzonato per condividere con il lettore una delle tante modalità che uno psicologo potrebbe seguire per affrontare il problema con il suo cliente. Ovviamente la modalità di lavoro presentata è quella che chi scrive ritiene più adeguata a sé stesso e al suo modo di lavorare, ma è importante che il lettore sia conscio dell’esistenza di numerose altre modalità altrettanto valide.
In caso di problemi legati all’ipersensibilità al giudizio o ad altri fattori sociali e/o relazionali, l’invito a rivolgersi ad un professionista è sempre valido e raccomandato. Apprendere delle semplici e pratiche tecniche da applicare al sintomo può sembrare di grande aiuto perché potrebbero ridurre immediatamente la portata dell’espressione sintomatica ma, alla lunga, se non si sono affrontate professionalmente le problematiche alla base del sintomo stesso, con molta probabilità, esso tenderà a ripresentarsi.
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